Il Sole 24 Ore - Renato Brunetta

Una riforma liberale perché è dalla parte di cittadini e imprese

16 marzo 2021

L’urgenza di uscire il prima possibile dalla crisi richiede una Pubblica amministrazione forte e credibile, che abbia non solo gli strumenti, ma anche la reputazione per scommettere sul futuro e sulle transizioni digitale ed ecologica che l’Europa indica per tornare a crescere.

Il tempo stringe. Per qualificare l’offerta di servizi e migliorare la vita di cittadini e imprese, ho l’obbligo di cominciare da coloro che il presidente Mattarella ha definito «il volto della Repubblica». Due terzi dei dipendenti pubblici sono costituiti dal personale della sanità, della scuola e della sicurezza. È un errore dipingerli un giorno come eroi e l’altro procedere per generalizzazioni ingenerose, scambiando i pochi che si considerano una corporazione di intoccabili per il tutto, quello che ogni giorno, in ogni settore, dai tribunali ai musei, incarna la presenza viva dello Stato. Ho chiaro da sempre che bisogna responsabilizzare i dirigenti, valorizzare gli operosi, sanzionare le storture. Ma vedo altrettanto chiaramente la necessità di riconoscere a insegnanti, medici, infermieri, forze dell’ordine il loro straordinario contributo all’emergenza e il loro diritto di diventare protagonisti della ripresa.

È un altro errore analizzare separatamente i due atti della scorsa settimana: la presentazione martedì delle linee programmatiche sulla Pa in Parlamento e la sigla, mercoledì a Palazzo Chigi, del Patto tra Governo e sindacati per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale. Sono, infatti, parte della medesima strategia: garantire l’attuazione del Piano di ripresa e resilienza e la capacità di spesa dei quasi 200 miliardi di fondi europei che arriveranno all’Italia.

Nelle linee programmatiche c’è la definizione del nuovo alfabeto della Pa: A come accesso, B come buona amministrazione, C come capitale umano, D come digitalizzazione. Significa ripensare i percorsi di reclutamento e di selezione del personale per favorire il ricambio generazionale e l’innesto delle competenze adeguate a costruire l’avvenire, ben oltre il Recovery. Significa mappare le procedure complesse per semplificarle, eliminando i colli di bottiglia. Significa intervenire chirurgicamente per tagliare i tempi della burocrazia e migliorare la qualità della vita delle persone e l’efficienza delle imprese. Tutto quello che all’Italia manca e di cui ha bisogno.

Avevamo due strade: lo scontro, ovvero congelare ancora i contratti già scaduti (mentre tante categorie del privato hanno già beneficiato dei rinnovi, tra cui alimentari, metalmeccanici, telecomunicazioni, sanità privata), oppure un’assunzione di responsabilità collettiva. Abbiamo scelto il dialogo sociale, che non può che passare per il contratto: è la linfa vitale che può innervare e motivare il cambiamento. Le risorse sono quelle stanziate dal Governo precedente, che in gran parte soltanto nel 2022 si tradurranno in aumenti in busta paga.

Ma puntare sulle persone vuol dire essere reciprocamente esigenti. Il Patto del 10 marzo è la condizione di relazioni sindacali necessaria e sufficiente per la riqualificazione strategica del lavoro pubblico. Pecca di riduzionismo chi non vede o minimizza le similitudini tra il Protocollo Ciampi-Giugni del 1993 e l’accordo del 10 marzo 2021. Similitudini non di contenuti, assolutamente diversi, ma di spirito del tempo. Entrambi sono stati sottoscritti in corrispondenza di due grandi scelte dell’Italia: nel 1993 dopo Maastricht, dunque dopo la decisione di entrare nel processo di convergenza europeo; oggi dopo il Next Generation Eu, per accompagnare il Pnrr. In tutti e due i casi, il Governo mantiene il diritto-dovere di decidere, ma il dialogo sociale viene utilizzato per sostenere e rendere strategica una scelta in un’ottica di partecipazione e corresponsabilità. Posso dirlo con cognizione di causa: il secondo accordo l’ho voluto e firmato, il primo avevo contribuito a scriverlo.

Oggi le macerie sul campo sono ancora più devastanti di 28 anni fa.  Il Patto ha lo scopo di innovare chiedendo, come e più di allora, un supplemento di responsabilità a partire dal lavoro pubblico. Lo sviluppo della contrattazione decentrata serve proprio per valorizzare la produttività ed evitare il “tutto a tutti” che mortifica chi si è rimboccato le maniche. Sul tavolo c’è il percorso per costruire un nuovo inquadramento professionale che fissi professionalità, merito e conoscenza come obiettivi oggettivi e misurabili, che selezioni ed eviti l’appiattimento.

Chiediamo a un lavoratore autonomo, a una partita Iva, a un imprenditore medio, grande e piccolo di scommettere con noi su uno Stato amico che gli possa semplificare la vita. Vogliamo liberare i cittadini dalle vessazioni e dalle pastoie della cattiva burocrazia. Vogliamo un Paese migliore, più efficiente, più giusto.

Investire sul lavoro pubblico, sui tanti volti della Repubblica, è oggi opera autenticamente liberale.